Talos, nella mitologia greca, era il gigante di bronzo invulnerabile incaricato da Minosse di sorvegliare l’isola di Creta, mettendo in fuga i nemici che tentavano di sbarcarvi. Era invincibile, tranne in un punto della caviglia, dove era visibile l’unica vena che conteneva il suo sangue. La leggenda narra che quando la spedizione degli Argonauti giunse sull’isola, Talos fu reso pazzo e neutralizzato dai filtri di Medea e poi ucciso dall’argonauta Peante che trafisse la sua vena con una freccia.
A collegare Talos con la città di Ruvo di Puglia, nell’entroterra delle Murge, fu il ritrovamento nelle campagne della città di un vaso a volute (noto come “cratere”) del V secolo a.C. rappresentante la morte di Talos, ora custodito nel museo Jatta della città. Quasi un brand cittadino per il quale oggi squadre sportive, locali di svago, B&B prendono il suo nome.
Tale legame oggi è più tangibile e immediato grazie alla statua realizzata dall’artista Max di Gioia durante il periodo della pandemia da Coronavirus, che per lui è stato periodo di intenso lavoro in solitudine (senza particolari supporti tecnici moderni) e di speranza per quanto stava creando. La statua, in marmo di Colonnata (tipologia specifica del marmo di Carrara) è alta 3,3 metri che, sommati alla base, raggiunge i 5 metri, per un peso di oltre 7,5 tonnellate.
La sua titanica opera trova adeguato completamento nel volume da lui scritto “Menta, marmo e mito”, per i tipi di SECOP Edizioni, dove racconta la genesi dell’idea e il suo sviluppo, partendo da vicende del passato e dell’infanzia che trovano compimento nella statua del gigante tra i profumi di menta assaporati nelle gite col nonno, l’enorme blocco di marmo di 13 tonnellate dal quale liberare il gigante e il mito di quella storia che dà lustro alla città. In pratica “annoda fili tra spazio e tempo”, come spiega nella postfazione Mariella Medea Sivo.
Sulle colline murgiane, che fanno anche da sfondo alle gite con il nonno, vere e proprie lezioni di vita, si forma la sua sensibilità umana ed artistica. Quei ricordi di profumi e insegnamenti si materializzano nella lunga genesi che porta al compimento della sua “maestosa” statua. Anzi si materializzano misteriosamente proprio nei momenti di maggiore difficoltà o indecisione o scoraggiamento. E questi momenti bui non sono mancati tra difficoltà tecniche, umane, sociali, nel rapporto con istituzioni, enti pubblici preposti, con in più i commenti dei leoni da tastiera sui social, inutili e scoraggianti. Così Max documenta la fatica personale benedetta dai risultati che pian piano consegue, dallo stimolo del suo maestro, alla visita dell’amico che gli porta il caffè, all’incoraggiamento di chi gli offre i mezzi per proseguire.
Anche gli animali intervengono a dargli una mano e ad offrirgli moniti di vita, come la volpe che con le sue insolite giravolte gli offre la soluzione per risolvere un importante problema tecnico o come i gattini che, giunti misteriosamente, gli fanno compagnia, gli danno gioia con i loro giochi e lo intrattengono durante il duro lavoro fino a quando non li trova uccisi dai cacciatori (frequenti nella zona e che già suo nonno allontanava quando li sentiva). Un monito di come la cattiveria e la crudeltà dell’uomo possa porre termine alla tenerezza.
Il volume di Max di Gioia rappresenta una particolare pagina di storia dell’arte (grazie anche ai prestigiosi contributi di Erri De Luca, Enrica Simonetti, Cosimo Damiano Damato, Alberto D’Atanasio), non come quella dei più tecnici manuali di settore, ma perché intrisa della sua fatica, della sua speranza, dei suoi ricordi, della sua passione nell’intento di fare qualcosa di bello a perenne memoria per la sua città. Come si suol dire oggi, un esempio di “cittadinanza attiva” che coniuga storia, arte e bellezza.