A chi non è capitato di guardare distrattamente la TV durante una pausa pubblicitaria e all’improvviso, vedere catturata la propria attenzione dalle drammatiche immagini di bambini sofferenti, accompagnate da una voce narrante che rende ancora più evidente le mancanze e la sofferenza nella quale devono vivere quei poveri esseri umani?
Immagini sconvolgenti, la voce profonda dello speaker che narra storie tremende e ci chiama direttamente in causa come soluzione alla fine della sofferenza dei soggetti inquadrati. Lo scopo è quello di farci muovere dalla nostra ignavia, convincendoci a donare del denaro per sostenere le attività dell’organizzazione umanitaria di turno.
Scopo sicuramente nobile e importante. Ma siamo sicuri che il metodo sia quello giusto?
Prima, il taglio nell’affrontare queste tematiche era quello della testimonianza (ad esempio di operatori sul campo) o dell’eviscerazione di numeri e “facts” riguardo all’operato dell’organizzazione (per provarne la sua affidabilità e la sua efficacia), accompagnato anche da storie personali di soggetti aiutati, trattate in chiave positiva e soft.
Ultimamente, si sta invece assistendo a un profondo cambiamento stilistico nell’affrontare questo tipo di tematiche: il taglio utilizzato è puramente quello emozionale, come a dover aumentare la dose di orrore necessaria a rompere il muro dell’indifferenza.
Sembra quasi che i planner e i copywriter delle agenzie pubblicitarie abbiano fatto un ragionamento del tipo: “Ormai il pubblico è assuefatto dalla sofferenza, ci viene sbattuta in faccia da ogni telegiornale e sito web di news. Inoltre, proprio per il bombardamento informativo subito, non vi è più la capacità di assorbire informazioni razionali riguardo alle attività e ai numeri delle associazioni. L’unica leva sulla quale puntare nei 30’ di spot è quella emozionale, amplificando la sofferenza, mostrandola quasi a ostentarla il più possibile”.
Se questa teoria è vera e vincente, in termini di numeri non possiamo confutarlo, non avendo il ROI (Return On Investment) di tali campagne, sicuramente molto costose. Possiamo però continuare il ragionamento su di un piano etico.
Il meccanismo dell’assuefazione prevede che la dose della sostanza – in questo caso “emozione” – somministrata, debba essere sempre aumentata per continuare ad ottenere l’effetto sperato.
Se ciò è vero, presto non basteranno più le crude immagini mostrateci oggi ma ce ne vorranno di ancora più terribili, arrivando a mostrarci “il cadavere all’ora di cena” pur di smuoverci dai nostri pensieri e farci aprire il portafoglio.
Un meccanismo forse efficace, sicuramente inaccettabile per l’abbruttimento generale sul quale si poggia e che contribuisce a creare.
Non sarebbe allora meglio invertire il senso di marcia, giocare su un piano costruttivo e positivo, rompendo questo perverso meccanismo?
Non pretendendo di avere una risposta ma di far riflettere su un fenomeno che intreccia comunicazione, costume e società. La risposta, come sempre, la daranno i fatti.
Simone Guzzardi
Nato a Milano nel 1982, ha compiuto studi nell’ambito della comunicazione e non ha più smesso di occuparsene.
In oltre dieci anni di esperienza presso alcune delle principali agenzie presenti in Italia, ha avuto modo di operare per importanti aziende italiane e internazionali attive in particolare nei settori finanziario, bancario, assicurativo, ITC, food&beverage e manifatturiero.
A febbraio 2017 ha fondato, insieme a The Van, l’agenzia di comunicazione istituzionale L45, della quale è anche Amministratore Delegato.
Docente in Master Post Universitari e redattore per magazine online.
È appassionato di musica e vespista irriducibile in ogni stagione.