Michela Murgia, Grande Maestra: Grazie.
“Scrofa, palla di lardo, Pegga Pig, scaldabagno con le gambe, maiala, ti vomito, stai zitta, spero ti stuprino – anzi no per rispetto allo stupratore, mettiti il burqa, mettiti a dieta…”.
Nel 2019, mentre leggevo con il batticuore la lunga lista di insulti rivolti a Michela Murgia – una promozione dell’insulto durata 14 mesi, apparsa sulle pagine dei socialmedia legate al partito della Lega – lei mi insegnava che “per ogni ‘cesso’ o ‘scrofa’ che riceviamo, l’antidoto è ricordare la forza che quelle parole vorrebbero spegnere: la bellezza che sappiamo riconoscere in noi stesse è la fonte della libertà che vorrebbero negarci”.
Mi insegnava che la denigrazione del corpo, che vuole di fatto colpire l’anima, è specchio di una società puerilmente maschilista in cui il corpo femminile è continuamente sottoposto a giudizio ed usato come incarnazione di valore o disvalore. Sempre più diffusa e troppo spesso legittimata socialmente, la denigrazione pubblica non è solo un evento doloroso per il singolo, è soprattutto un modello pericoloso per i più. Se prende vita in ambienti di potere, che potenzialmente fungono da modello, rischia di essere preludio di violenza verbale dilagante: sdoganare l’odio e renderlo fenomeno sociale può trasformarlo in costume consolidato. Domani quella colpita impunemente potrebbe essere tua figlia o potresti essere tu.
Mentre anche io mi interessavo di comunicazione ed i suoi tranelli, Michela Murgia mi insegnava qualcosa che pensavo di sapere ed invece non sapevo abbastanza: se è vero che le parole contano e fanno la differenza, curare il vocabolario in direzione di un linguaggio di genere significa fare spazio, legittimare, offrire visibilità a cose, persone, situazioni. Solo nominando le cose con il giusto nome (penso alle professioni declinate al femminile, per esempio), queste esistono ed acquisiscono confini chiari. Se ottenere riconoscimento vuole un linguaggio ad hoc (le “Signorine” che troviamo nei corridoi degli ospedali vanno chiamate “Dottoresse”, ricordo ai paternalisti) , sbagliare nome è, allora, quanto mai pericoloso, perché se si sbaglia il nome si rischia di sbagliare anche l’atteggiamento.
Detto ciò, ancora a proposito di parole, non abbiamo bisogno di definirci donne “con le palle” (gergo che io ho sempre adottato) per indicare un substrato grintoso. E questo me lo ha insegnato, ancora una volta, Michela Murgia. Non abbiamo bisogno di definirci attraverso attributi maschili: la nostra femminilità, semmai, è più che sufficiente per raccontare chi siamo. Per tutte le volte che ci siamo compiaciute di ricevere questo complimento, non abbiamo colto il pregiudizio sotteso: la mascolinità non deve essere il parametro per definire l’eccellenza.
Alle femministe, o aspiranti tali, ha ricordato che scivolare è un attimo, perché per essere maschilisti non è necessario essere maschi. Se dai della “zoccola” ad una vittima di revenge porn, per esempio, forse è bene tu riveda qualcosa del tuo millantato femminismo. Se ti togli i tacchi prima di un colloquio di lavoro, chiediti quale battaglia stai combattendo.
Intellettuale dalla voce critica, da lei ho appreso che prendersi uno spazio di parola ha senso sempre, anche se è di minor rilevanza, perché prendere una posizione pubblica su qualcosa che si ritiene giusto è fare la propria parte. È possibile che, in quanto donna, ti diano dell’aggressiva: la capacità di sostenere conflitti aperti vuole assertività e forza, ma quando la determinazione è femmina rischia di essere tacciata di arroganza. Pazienza, meglio un pensiero disturbante che un pensiero afono.
Michela Murgia ha insegnato che i legami d’amore sono quelli che ti scegli e non quelli determinati dal sangue, percezione molto vivida anche in una figlia unica come me che vive di legami amicali fraterni. Una famiglia è tale se vige l’amore più che il vincolo. Una famiglia è una famiglia se ciascun essere umano può avere un posto dentro o fuori i perimetri che hanno eletto condotte o identità come legittime.
Di amore – che non può avere vincoli di genere – e di famiglia – che non necessita vincoli di sangue – ha sentito l’urgenza di parlarne anche con Papa Francesco, in giugno: “Santità , le lascio questo (porgendogli la rivista Vanity Fair di cui aveva curato la pubblicazione in occasione del Pride): parla di famiglie e di armonia in tanti tipi di famiglie”. Sono certa lo abbia fatto perché sulle discriminazioni resti il faro puntato o meglio perché, con l’alleanza del Papa, quel faro possa spegnersi, come accade sulle questioni legittimate, risolte ed archiviate.
Michela Murgia ha raccontato con sagacia e poesia l’idea di mondo che amo, così io ho finito per amare lei. È un mondo libero, possibile, che abbiamo ancora bisogno di co-costruire insieme, un mondo affatto brutto, perché, come dice lei, dipende sempre “da che mondo ti fai”.
C’è solo una cosa che avrei desiderato ancora apprendere da lei, quel suo saper scrivere e poi parlare, ma questo è ciò che la rende più unica che rara.
Ci sono persone straordinarie al mondo, non ha senso invidiarle, basta ammirarle profondamente e ammettere la loro straordinarietà. Sono inarrivabili e va bene così: qualcuno è semplicemente straordinario.
Michela Murgia, che il 10 agosto ha lasciato il corpo, è tra queste.
Inarrivabile Grande Maestra: Grazie.