Inganni e morte, fedeltà e tradimento, parole che seducono e silenzi che uccidono: dal 2 al 6 novembre, al Teatro Studio Melato, la straordinaria storia d’amore e di amicizia di Cyrano de Bergerac ritrova tutta la sua forza poetica, e la sua attualità, in una riscrittura rap, firmata da Leonardo Manzan, giovane talento rivelatosi alla Biennale Teatro 2018 diretta da Antonio Latella (lo spettacolo ha vinto il Bando Biennale College).
Cirano deve morire è una riscrittura per tre voci del Cyrano di Bergerac di Edmond Rostand. Uno spettacolo concerto con testi e musiche originali dal vivo che trasforma la poesia di fine ’800 in potenti versi rap. Rime taglienti e ritmo indiavolato affrontano in modo implacabile il tema della finzione attraverso il racconto di uno dei più famosi triangoli d’amore della storia del teatro; è la storia di due amici e della donna di cui entrambi si innamorano, tre ragazzi proprio come i giovani Paola Giannini, Alessandro Bay Rossi e Giusto Cucchiarini chiamati a interpretarli sulla scena.
Cirano deve morire recupera la forza poetica del testo originale attraverso le rime e il ritmo del rap, scelta necessaria – per il regista – non solo per esprimere l’eroismo e la verve polemica del protagonista, ma anche per rendere contemporanea e autentica, quindi fedele a Rostand, la parola d’amore.
Leonardo Manzan, romano di origine, milanese di formazione, classe 1992, si è fatto notare tra i giovani talenti alla Biennale Teatro di Antonio Latella che, nella motivazione del premio che gli è stato assegnato a Venezia, di lui dice: «Manzan ha avuto il coraggio di esporsi e di rischiare. Ha dimostrato di essere pronto ad attraversare quella linea gialla che delimita la zona di sicurezza per andare in zone anche pericolose, mai rassicuranti e ovvie».
Sarà bene cominciare dal principio, cioè dal titolo. “Cirano deve morire” è una dichiarazione di intenti e insieme una preghiera che vi rivolgo in forma di esclamazione: dimenticatevi del Cirano così come pensate di conoscerlo. Il primo atto del Cyrano de Bergerac reca a sua volta un titolo: “Una Rappresentazione a Palazzo di Borgogna”. Non è un caso che un dramma sulla verità e sulla menzogna, sulla realtà e sulla finzione, si apra in un teatro. “Una Rappresentazione a Palazzo di Borgogna” è il titolo dell’atto primo dell’opera di Rostand. Un evento e il suo spazio. Richiamarlo mi serve per spiegare il primo tentativo: aderire a questa indicazione dell’autore (più suggestione che prescrizione), seguire questa traccia e portarla alle estreme conseguenze. “Cirano deve morire” sarà “Una rappresentazione in un teatro” nel senso che si svolge tutta e unicamente nel teatro che la ospita, dal principio alla fine. Tra il principio e la fine naturalmente c’è una storia. La storia è nota e sarebbe inutile cercare di ammantare di mistero ciò che è semplice come la vicenda di tre ragazzi. Lo sforzo della sinossi è superfluo. In “Cirano deve morire” le foglie dell’ultimo atto sono ormai cadute. A ben vedere però non tutto è perduto. Non tutti sono perduti.
Nell’ultima scena dell’opera di Rostand Rossana vive. Quanto basta per innescare il secondo tentativo: raccontare di nuovo una storia già letta, mettere in scena una ripetizione (che sia l’ultima, perché Cirano deve morire), affinché emergano da essa le ambiguità e i significati, (le vere ambiguità e i veri significati), e questo senza che si sovrapponga, a portarci a fondo, l’interpretazione. L’interpretazione è una malattia mentale – chi l’ha detto? Sono d’accordo con lui -. Liberi dall’interpretazione, e va da sé dal giudizio, non resta che dire brevemente in cosa consiste questa storia rivissuta e come intendiamo raccontarla in scena. Cosa vuol dire mettere ancora una volta su un palco Cirano, Rossana e Cristiano e metterli in condizione di mostrarci per l’ultima volta le loro vicissitudini? La risposta è uno spettacolo concerto. Un’esibizione consapevole e a tratti aggressiva, che sceglie il verso rap e la sua poetica per riappropriarsi della spontaneità originaria e insieme, ma è lo stesso, della profondità che Rostand a volte sembra voler dissimulare. Professione di cortesia nei confronti del pubblico? Parrucche e sfarzosi abiti seicenteschi possono nascondere le cose più difficili da dire. Sento che prima della fine di questo intervento, prima che di questo foglio facciate dei più utili coriandoli, sia giusto da parte mia venire allo scoperto e dire apertamente cosa penso di Cirano, perché Cirano deve morire, motivare in qualche modo il mio desiderio iconoclasta.
Ma rischio che sia piuttosto Cirano a dire cosa pensa di me. Si può essere iconoclasti verso ciò che non è un’icona? Forse è proprio questo il tentativo più importante: dimostrare che Cirano non è affatto un’icona, non offre schemi. Semina indizi, tracce che portano a noi. Cirano ci appare molto più simile, più prossimo di quanto pensassimo, se riusciamo a smascherarlo, cioè, letteralmente, se gli togliamo la maschera. Siamo tra persone adulte, non sappiamo forse che Cirano porta una maschera, non parlo della sua strategica oscena appendice, ma della maschera dell’eroe? Ho detto fin troppo.
Lascio che sia un filosofo contemporaneo, Alasdaire MacIntryre a chiudere come si deve queste note, con quello che considero il miglior riassunto di quest’opera e della nostra umana condizione.
“[…] cercando di proteggere l’autonomia che abbiamo imparato ad apprezzare, aspiriamo a non essere manipolati dagli altri; cercando di concretare i nostri principi e punti di vista nel mondo della prassi, non troviamo altra strada praticabile che rivolgere verso gli altri quelle stesse modalità di rapporto manipolativo cui ciascuno di noi desidera sottrarsi nel proprio caso.” (Leonardo Manzan)
Nella foto in evidenza: Cirano deve morire – Paola Giannini (ph Andrea Avezzù)
Fonte: Ufficio stampa Piccolo Teatro di Milano