Viviamo in un’epoca sempre più rumorosa: veniamo costantemente bombardati da telefonate, mail e comunicazioni che crescono di giorno in giorno per colpa anche dei vari social media. Una girandola di stimoli e un eccesso di informazioni che fanno perdere la bussola e agire più d’impulso che razionalmente. Non c’è più spazio per la riflessione personale, per approfondire e selezionare le notizie e, in generale, per comprendere le cose che ci capitano. Estremizzando, possiamo dire che non ci resti più tempo da dedicare al sonno e a noi stessi, poiché siamo sempre connessi, in qualsiasi luogo e momento.
Per non apparire maleducati o pigri bisogna sempre essere reattivi, rispondere a tutti, sia per le questioni di lavoro che private, tutti i giorni e a tutte le ore. Senza che ce ne accorgessimo, siamo diventati a poco a poco sempre più schiavi della tecnologia e abbiamo alienato i nostri ritmi di vita allo smartphone, vero e proprio feticcio dell’epoca contemporanea.
“La velocità del vivere aumenta e così lo stress e la mala gestione del tempo”, scrive Agostino Picicco, giornalista e scrittore, nel suo libro “Vita da social. Comunicazioni e relazioni al tempo di internet (Ed Insieme). Neanche un viaggio all’estero o le ferie servono più a essere “irreperibili” per sfuggire da un lato dalla routine quotidiana, dall’altro dallo stress che accumuliamo ogni giorno: le nuove tecnologie hanno annullato qualsiasi distanza e rimaniamo raggiungibili sempre e ovunque. Viviamo costantemente di fretta, con gravi conseguenze sulla nostra capacità di attenzione e di ascolto, sempre più in diminuzione. In questo modo ci allontaniamo dalla felicità e dalla saggezza che gli Antichi cercavano di raggiungere mediante l’“otium”, considerato fondamentale per qualsiasi produzione letteraria e inteso come pausa da dedicare alla contemplazione, lontano dall’affanno degli affari e della vita pubblica.
Un recupero del silenzio, inteso come spazio di riflessione personale solitaria o una pausa da dedicare completamente a se stessi o ai nostri cari in “modalità off-line”, sarebbe a mio avviso vitale per migliorare la nostra qualità della vita. Basterebbe ritagliarsi degli spazi privati in cui non si venga disturbati da mail, messaggi su Whatsapp e notifiche inerenti alle varie attività sui social media. Da soli però non ce la possiamo fare. Per tentare di uscire da questo caos dovuto a un eccesso di comunicazione digitale – dai messaggi fuori orario alle mail aziendali inutili o inviate in giorni festivi – occorrerebbe una condivisione generale di una “netiquette” (neologismo che sta a indicare un insieme di regole di comportamento condivise sul web), sia in un contesto lavorativo che privato.
Il problema dello “stress da iperconessione”, che inevitabilmente riduce la produttività delle persone invece che aumentarla, è già stato affrontato da tempo all’estero, almeno nel campo lavorativo. In Francia, per esempio, dal primo gennaio 2017 è entrato in vigore il “diritto di disconnessione”: una norma che obbliga le aziende con più di 50 dipendenti a negoziare con i lavoratori il diritto a non rispondere a mail e telefonate al di fuori degli orari di lavoro. In Germania, invece, diverse grandi aziende hanno regolato il fenomeno delle mail fuori orario, fonte di stress e tensione, esentando i lavoratori dal leggerle quando non si trovano in ufficio. Il pensiero di fondo è che “less is better”: la produttività viene incentivata dalla ridefinizione degli orari e spazi lavorativi. Per far rispettare il “bon ton digitale” da tutti i dipendenti di un’azienda occorrerebbe in primis il buon esempio dei dirigenti e poi il rispetto di alcune piccole regole di comportamento, da includere in una policy aziendale, come il divieto di usare la posta elettronica durante una riunione, fonte di distrazione. Andrebbero poi previste anche delle sanzioni come accade in diverse grandi aziende statunitensi, dove i dipendenti inadempienti che inviano mail inutili o fuori dall’orario d’ufficio vengono sanzionati con delle multe.
Nel libro “La tirannia dell’ e-mail” (Codice Edizioni) John Freeman, scrittore e critico letterario statunitense, invita i lettori a riconquistare la propria vita privata, servendosi di questo potente strumento di comunicazione “con molta più parsimonia e a esserne molto meno dipendenti”, consigliando di evitare di controllare la posta elettronica come prima e ultima attività della nostra giornata.
Nella nostra vita occorrerebbe ogni tanto concedersi delle tregue dall’iperconessione sfrenata, spegnendo anche il cellullare se necessario, per dedicare dei momenti solo a noi stessi o ai nostri cari, allo scopo di recuperare le energie intellettive e spirituali. Ne beneficerebbero sia la nostra produttività lavorativa che il nostro benessere psicofisico, oltre che le persone a cui teniamo di più.
Il silenzio, alla base di qualsiasi forma di preghiera e meditazione personale, accompagnato da momenti di riflessione in solitudine, serve a riscoprire se stessi e ad andare in profondità, aggiungendo qualità alla nostra vita, come scrive il grande filosofo e scrittore fr. Enzo Bianchi in “Lettere ad un amico sulla vita spirituale” (Qiqajon):
“Solitudine e silenzio sono il tempo delle radici, della profondità, in cui ricevi la forza per essere te stesso, per pensare, per coniare una parola tua che magari può essere in contrasto con quelle che tutti ripetono. Silenzio e solitudine sono dunque i mezzi privilegiati della vita interiore, che ti consentono di prendere confidenza con te stesso e di osare te stesso, anche a costo di arrivare a “cantare fuori dal coro”, a rompere con le logiche omologanti che tutto appiattiscono […]. Non è affatto vero che comunichi bene chi parla molto o sempre e che sia una persona capace di relazioni quella che vive continuamente in mezzo agli altri, senza mai concedersi un momento di tregua, di faccia a faccia con se stessa. Questo sarebbe uno scambiare la quantità con la qualità. È vero, invece, il contrario: la capacità di comunicazione e di relazione è proporzionale alla capacità di silenzio e solitudine”.