Umberto Orsini, diretto da Luca Micheletti, torna a dar voce, al Piccolo Teatro Grassi, dal 4 al 16 ottobre, a Ivan Karamazov, uno dei personaggi più complessi e tormentati dell’intera letteratura.
Umberto Orsini affronta per la terza volta nella sua carriera d’attore l’ultimo – e probabilmente più grande – romanzo di Fëdor Dostoevskij: I fratelli Karamazov.
Dopo il fortunato sceneggiato televisivo di Bolchi e il recente La leggenda del grande inquisitore, Orsini si confronta direttamente con la complessità del personaggio più controverso e tormentato dell’intera letteratura: Ivan Karamazov, il libero pensatore che teorizza l’amoralità del mondo e conduce all’omicidio, forse consapevolmente, l’assassino del padre.
Colpevole e innocente insieme, Ivan Karamazov ritorna a parlare, come un uomo ormai maturo che sente di non aver esaurito il proprio compito e, percependo il suo personaggio romanzesco troppo limitato per esprimere la complessità del suo pensiero, cerca di chiarire le esatte dinamiche dei “delitti” e dei “castighi”. A distanza di quarant’anni dai fatti raccontati da Dostoevskij, compila le sue memorie e tenta di far luce sui propri sentimenti e sulla propria filosofia, provando a svelarne le implicazioni criminali, come in un vero e proprio thriller psicologico e morale.
Nella ricchezza di un linguaggio penetrante quanto immediato e nell’avvicendarsi degli stati psicologici di un personaggio “amletico” e imprendibile, Umberto Orsini è il grande protagonista di un inedito viaggio nell’umana coscienza: una straziata e commovente confessione a tu per tu con sé stesso e con i propri fantasmi.
Sembra incredibile ma è quasi mezzo secolo che conosco il signor Ivan Karamazov. L’ho incontrato in uno studio televisivo di Via Teulada, a Roma, e da allora ci siamo guardati nello specchio e ci siamo confusi uno nell’altro al punto di identificarci o de-identificarci. L’ho costruito giorno dopo giorno quell’Ivan, gli ho dato un aspetto severo, l’ho fatto diventare biondissimo, quasi albino, gli ho messo un paio di occhialini tondi e dei colletti inamidati di fresco. L’ho difeso da una sceneggiatura che lo penalizzava, battendomi per dare lo spazio adeguato all’importanza del suo “Grande Inquisitore”, inizialmente dato per troppo cerebrale e dunque probabilmente indigesto al grande pubblico. Con lui, specchiandomi in lui, ho trascinato il pubblico ad un ascolto record in una puntata dei “I Fratelli Karamazov” che lo vedeva impegnato in una discussione sull’esistenza di Dio. È lì che ci siamo incontrati, negli anni Settanta, e da allora è stato difficile, per chi in quegli anni ha seguito quella trasmissione, separare la sua immagine dalla mia. E, a poco a poco, anch’io mi sono illuso di essere il depositario di quell’immagine, di essere diventato il suo doppio, il suo SOSIA, per dirla col suo autore, il signor Dostoevskij. E, negli anni successivi a quel primo incontro in cui gli avevo prestato le mie sembianze, ho sempre cercato di seguirlo anche fuori dal contesto del romanzo, immaginando per lui una longevità e un finale che il suo autore gli aveva negato. Mi sono dunque preso la libertà di rappresentarlo come un personaggio che resiste nel tempo, e mi sono chiesto, e gli ho fatto chiedere, perché mai l’autore, il suo creatore, lo abbia abbandonato non-finito. E questo non-finito me lo sono trovato tra le mani oggi, come in-finito e dunque meravigliosamente rappresentabile perché immortale e dunque classico. “La vera vita degli uomini e delle cose comincia soltanto dopo la loro scomparsa…” è una frase di Nathalie Sarraute che ho inserito in questo spettacolo e che, in qualche modo, ne riassume il senso. Sono grato a Luca Micheletti di aver condiviso la mia passione per i temi che lo spettacolo sollecita accarezzando la mia persona con grande cura e protezione. Come si conviene a due vecchi signori: il signor Ivan Karamazov e il sottoscritto.
*La foto in evidenza è di: ©Fabrizio Sansoni
Fonte: Ufficio stampa Piccolo Teatro di Milano