La vita non è un cammino lineare, ma un labirinto intricato, solcato da intoppi imprevedibili, che a volte ci conducono in un vicolo cieco. La psicologa Luisa Ghianda analizza il ruolo del “cambiamento” nella nostra vita.
Ammettiamolo, siamo alla costante ricerca del “nostro” “Formaggio”, qualcosa che sostanzialmente ci nutra e ci doni l’agognata felicità.
Tu, per esempio, che formaggio vuoi? Un buon lavoro, tanti, anzi tantissimi soldi, la fama, lo status sociale, la salute, l’amore, tanti amori, la serenità interiore, il nirvana…? E dove lo cerchi il tuo formaggio? Nell’azienda in cui lavori, in famiglia, nella comunità, in un ashram… L’hai mai trovato, il tuo formaggio? E che ne hai fatto, poi? Di’, te lo hanno mai rubato, il tuo formaggio?
Ognuno di noi ha una concezione personale della natura del formaggio, ma tutti aspiriamo a possederlo, perché siamo convinti che abbia il potere di procurarci quella felicità per cui valga la pena vivere. Sfortuna vuole che, quando riusciamo a ottenerlo, ne diventiamo fortemente dipendenti. E quando lo perdiamo, ci viene spostato, ci viene rubato, rimaniamo sconvolti.
Ecco, questa storia che il formaggio è nostro, lo sarà per sempre, e guai a chi ce lo tocca, ci incasina di brutto! Se non fosse che niente è destinato con certezza ad essere nostro a vita, se non fosse che la vita ci obbliga a fronteggiare continui cambiamenti inattesi, se non fosse che tendenzialmente detestiamo con tutte le nostre forze il cambiamento, la vita sarebbe una pacchia.
Invece no. La vita non è un cammino lineare, ma un labirinto intricato, solcato da intoppi imprevedibili, che a volte ci conducono in un vicolo cieco. A dirla tutta, il nostro formaggio ci viene continuamente spostato, ma lo schema precostituito che ci ronza in testa non ci aiuta a gestire le frequenti turbolenze che la quotidianità ci riserva.
Se non possediamo una visione del cambiamento, rischiamo il k.o.; questa è la parte scomoda da tenere presente. Perché tra le più grandi abilità nel surfare su questa vita, sta proprio l’abilità di trovare una via d’uscita dal labirinto: affrontare il tempo del cambiamento, fiutarlo per tempo, entrare in azione in tempo.
Tuttavia, la soggettività umana porta con sé un’inclinazione innata alla paralisi. Per dirla alla Freud, “l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”. L’esistenza umana ha la tendenza a chiudersi su se stessa, sostanzialmente. Il cambiamento spaventa, tanto da creare resistenze dettate più spesso dalla paura di un peggioramento della propria condizione.
Che fare, dunque, con il lato ingovernabile dell’esistenza? La domanda di protezione che rivolgiamo alla vita, a noi stessi, agli altri, può proteggerci fino in fondo? La pulsione di autoconservazione, nella sua accezione di eccessiva domanda di protezione, non rischia di generare il suo contrario? A me pare sia così. La vita perde se stessa: in nome di una sua estrema auto-conservazione, la vita finisce per auto-annientarsi. La tendenza a rigettare l’inquietudine della vita, la lotta interiore per ridurne il carattere anarchico, porta la vita a tornare sempre nello stesso posto, come a volersi “garantire”, rifiutando ogni trasformazione.
E se cambiare significasse conquistare qualcosa di altro, nuovo, migliore… Se perdersi fosse un nuovo inizio?
Si potrebbe cominciare dando una forma provvisoria all’ingovernabile, facendo in qualche modo amicizia con il mondo ricco di stimoli minacciosi in cui siamo immersi. Altro dal pretendere di scongiurare la presenza dell’ingovernabile, quanto piuttosto saperci entrare in rapporto, perché potenzialmente fonte di vitalità.
L’incapacità di sopportare quello che non si padroneggia è comune. Non serve disprezzarsi, disperarsi, biasimarsi, quanto sapersi ascoltare in modo estremamente rispettoso, fino a trovare le proprie parole.
Se la distruttività rischia di essere il risultato di una vita non vissuta, di una vita che non sopporta di esporsi al rischio del cambiamento, di una vita stroncata nella sua possibile espansività, l’ingovernabile fa pur sempre paura. Ecco che fare spazio a una vulnerabilità condivisa, mi appare una buona possibilità per rendere possibile la creazione. Ospitare l’ingovernabile. Farsi coraggio!
Che cos’è il coraggio? Secondo me è aspettare, darsi tempo, perdonarsi. Non colpevolizzarsi. Nessuno di noi sopravvive all’incertezza, abbiamo bisogno di sicurezze, siamo fatti così. A volte il coraggio accade solo dopo aver navigato nella propria fragilità.
Ci sono due fili rossi che si intrecciano sistematicamente nella vita: l’amore e la perdita. Attraverso lo spasmo del controllo, stiamo solo cercando di garantirci un raggio di sicurezza contro il terrore della perdita.
La vita è anche perdita. Perdersi sancisce obbligatoriamente un nuovo inizio. Altro, nuovo, diverso, migliore… .
“Assaporare” la paura, il brivido, il piacere della scoperta.
La forza di volontà conta, ma mai sopravvalutarsi.
Fiducia in se stessi: l’inconscio sa cosa è bene per noi.
C’è un libricino che parla di tutto questo, in modo facile e leggero: “Chi ha spostato il mio formaggio?” Cambiare se stessi in un mondo che cambia in azienda, a casa, nella vita di tutti i giorni” (Spencer Johson).
Qualcuno a me caro mi dice che gli ha cambiato la vita.