Un argomento inflazionato, l’amore, un grande sopravvalutato per alcuni, eppure di amore si continua a parlare in tutte le salse.
“Incontrare l’amore è come quando dipingi, hai un’idea in testa che cambia mentre la metti su tela. E ti accorgi che è qualcosa di nuovo che ti porta via. E alla fine esce una cosa imprevista più bella di quel che progettavi e non sai perché. Fare bei quadri è difficile. Non basta, ma di sicuro non vengono se non si riesce ad abbandonarsi ad una sana follia che ci distoglie da noi”. Non è farina del mio sacco, ma so che l’autore non se ne avrà a male.
Esiste effettivamente un momento preciso in una storia ed è quello in cui si decide, più o meno consciamente, se metterci un pezzo significativo di sé oppure rimanere nel proprio bozzolo. Indubbiamente c’è più forza, coraggio, sovversione nella promessa d’eternità degli amanti che nel passare da un corpo all’altro, trattandolo alla stregua di una merce, sostituendolo appena esaurisce il suo servizio. È questa la stortura emblema degli amori liquidi, dove tutto scivola, scorre e va senza solcare l’anima.
Certamente l’incontro d’amore è raro; più frequenti sono gli incroci ai limiti del break even point. Convincono poco, lasciano il tempo che trovano, si stemperano nel tempo di una folata di vento. L’impressione è che la vita sia roba da rabdomanti o lottatori. Deserto e sete. Oasi lontana. A volte si scopre pure un tesoretto, ma poi ci si accorge di non possedere la chiave per aprirlo: mancano le risorse personali, subentrano gli irrisolti, nell’aria l’eco di un passato ancora vivido, e poi il pathos, l’eros… Diverse le possibili ragioni, ma è certo che non si può scalare il K2 in inverno senza le bombole d’ossigeno.
La nostra è un’epoca in cui manchiamo di un linguaggio per “dire l’amore”, espressione singolare di Roland Barthes, manchiamo dei gesti per fare all’amore. L’impreparazione dilagante di fronte all’intimità emotiva è una responsabilità che ci dobbiamo prendere. Assente una formazione sentimentale che possa sostenere quel rischio di esposizione assoluta di sé a cui l’amore obbliga. Perché l’amore è vertigine e la paura della perdita è sempre alle calcagna. Chi non ci fa i conti rischia di finire in prigione senza passare dal via. E restarci.
L’uomo e la donna non sono complementari, vero. E questa è un’altra condizione dirimente. Tra i due c’è sempre una sorta di precarietà permanente piuttosto faticosa da sostenere. Il sesso rischia di essere l’apice del caos, croce e delizia che incolla, elettrizza, impasta, quando non separa del tutto. Lui gode del dettaglio del corpo, lei della parola. Lui: “Hai un bel culo”. Lei: “Dimmi che mi ami”. Bisogni inconciliabili che rendono il paradosso evidente. Chi vuole proseguire il viaggio insieme deve necessariamente coltivare la capacità di puntellare quella tensione instabile, ma è lì che l’amore gioca il suo ruolo chiave: quando c’è, è lui che consente di tollerare la discordanza.
Che poi cos’è l’amore? Sostanza stupefacente. È quella sensazione di straordinarietà che assume la vita, dove il mondo rinasce una seconda volta all’insegna del due. Appesi ad un filo, gli amanti si assumono il rischio dell’appartenenza, pur sapendo che un giorno potrebbero lacerarsi nella ferita dell’insignificanza. Ci vuole ostinazione e forse un po’ di follia, ma senza una buona dose di fiducia in se stessi si rimane a fissare il vuoto sotto di sé, piedi ben piantati a terra. Il tuffo ad angelo è roba grossa.
A complicare le cose ci si mette pure l’odio. Amore e odio sempre invischiati, come se il secondo sia il prezzo inderogabile per il primo. Perché se mi scoppi nel cuore io ti amo, ma mentre ti amo una parte di me ti odia. Quello squarcio, che il tuo sguardo ha aperto nel mio petto facendomi sentire profondamente viva, mi apre alla mancanza: temo di perderti e questo ti rende odioso. Prima ero intera, ora sono alla mercé di ciò che provo, quel sentirmi disarmata, mancante, dipendente, tensione che hai scavato con la tua presenza. Ora sono in balia di te. E questo è sufficiente per odiarti.
È un sentimento mortifero, l’odio, bisogna puntarci il mirino perché non sia lui a farti saltare in aria. Subdolamente precede l’amore circuendolo, perniciosamente ne segue la scia. Accoglierlo, quale simbolo del sentimento di dipendenza dall’Altro, rimane un passaggio indispensabile. L’amore è anche dipendenza emotiva: chi non se ne fa una ragione rischia di consumarsi in un’eterna fuga dall’oggetto d’amore, come se anticipare preventivamente la fine della relazione scongiuri definitivamente il terrore di sgretolarsi. Quello sgomento si ripresenterà puntuale al prossimo giro di giostra.
Poi, che tutti gli amori, anche quelli con vocazione d’eternità, possano finire è una realtà. Questa vita è pura impermanenza, paradigma filosofico cardinale delle filosofie orientali, che sottolineano la transitorietà dei fenomeni. La permanenza è un’illusione, e se l’accettazione di questa verità permette uno sguardo più sereno sul fluire delle cose, non implica il rifiuto di un sentire etico, né l’abbandono della ricerca di un equilibrio complesso, di un’intensità rilassata ma vigile. Siamo avvolti da una bellezza fluida costantemente imperfetta; è la natura delle cose.
Se c’è separazione degli amanti, il taglio è sanguinolento. È emorragia. Buio. Baratro. Il rischio è quello di chiudersi all’amore, facendo di quella ferita condizione sovrana. Impaludarsi nelle emozioni dolorose, affogando nella paura di dire o di sentirsi dire “ti amo”, costituisce una sconfitta. Quella ferita va medicata con costanza, caparbietà, perché vi sia guarigione. Ci vuole amorevolezza in alcuni frangenti della vita. Tanta amorevolezza verso di sé. Il lavoro del lutto non è mai indolore, come non lo è suturare la carne viva, mai rapido, come non lo è vedere un’ecchimosi sbiadire, mai a buon mercato, come non la è un’operazione chirurgica nella sanità privata. La delusione, la melanconia, la rabbia, materia ingombrante dentro di sé, esigono la capacità di so-stare, arte del saper stare con ciò che c’è senza giudizio, con amorevole gentilezza per ciò che si prova, perché l’ascolto cura. Sgomberare l’assente, diventato il grande presente dentro di sé, vuole tempo. Le cicatrici sono il resto melanconico del lutto, forse un resto che rimarrà per sempre, segno distintivo che racconta la propria ricchezza interiore, perché dove c’è stata capacità di amare non c’è mai davvero perdenza. Recuperare l’eredità positiva di ciò che è stato rimane la via da percorrere: onorare quel tratto di strada fatto insieme, celebrare la persona che si è diventati, che quella relazione ha contribuito in qualche modo a forgiare. Comunque sia andata.
Non si può negare che il nostro sia un tempo anti-lutto: sostituire per non sentire è la parola d’ordine. Tuttavia, la reazione maniacale dell’immediato rimpiazzo del partner impedisce la cura: non è negando il sintomo che si guarisce da un malanno. Il rischio è che quel dolore si radichi nel corpo: quello a cui si resiste persiste. La solitudine cura, per contro; nella solitudine si torna a sé.
Nemmeno odiare ha un risvolto felice: l’odio incolla, genera attaccamento. Riacquistare la libertà d’amare vuole un reinvestimento della propria libido. Là fuori il mondo. Ciò significa che, ad un certo punto, il ponte levatoio della fortezza inespugnabile in cui ci siamo rinchiusi deve svolgere il suo compito: abbassarsi e lasciare entrare. Pensiamo davvero sia possibile evitare per sempre l’intimità emotiva con l’Altro? La vita va vissuta non evitata.
Aneliamo l’amore con tutto noi stessi. Perché mai non siamo innamorati? Innamorarsi è raro. Forse rarissimo. Ma non impossibile. Sentirsi amati è altra questione ancora. Amare è un’arte, mi ricorda una danza, un minuetto tra sacro e profano che si balla a due, a condizione di essere ballerini solisti. Danzare non è esclusivamente per ballerini provetti, ma certamente vuole una certa preparazione atletica, che non può essere demandata al partner. “La danza non sta nel passo, ma tra passo e passo, eseguire un movimento dopo l’altro. È solo questo: movimenti. Come e perché si legano e cosa si vuole dire con i movimenti: questo è l’importante”. E’ Antonio Gades.
L’amore di coppia è un dono. Forse la strada è semplicemente dare, dare pienamente, dare tutto ciò che si ha, dare senza riserve, soprattutto dare a chiunque. Dare è molto potente: riempie, sfama, dona un senso. Forse la questione sta nel lasciare all’universo la possibilità di restituirci ciò che abbiamo donato, senza esigerlo esattamente nel modo in cui ce lo aspettiamo, coltivando l’arte di cogliere nella bellezza che ci circonda come ce lo ha restituito. Questa mi appare l’arte delle arti. Arte di pochi.