Vivere il presente, apprendere dal passato, progettare il futuro.
Sono le 7.44, i risultati del concorso sono online. Li aspettava con un’apprensione che a tratti si faceva famelica ansia divoratrice, come sempre accade quando attendi che il successo bagni il tuo cammino, ma temi che questo ti mostri il suo muso duro, la débâcle. Apre il documento, scorre la graduatoria, arriva fino all’ultima posizione dell’ultimo candidato in elenco, ricomincia, questa volta dal basso verso l’alto, rilegge, rallenta, respira, frena, si pulisce gli occhiali, il cuore spinge nel petto, riprova, ancora una volta… “Il mio nome non c’è”.
Quattro colloqui: l’hr manager, il direttore di produzione, il direttore del personale, l’amministratore delegato. “E’ fatta!”, si dice, dopo aver raccolto manifesti riconoscimenti positivi nell’ultimo incontro. H. 17.42, squilla il cellulare, un suono stridulo, lo ringraziano, bla bla, ottimo profilo, ma…”un profilo più giovane, sebbene meno ‘skillato’ ”. “Sei stato nominato!”, fa del sarcasmo, beve birra per non pensarci.
Elegante, sfrontata, sexy, eppure sempre un po’ fragile, con quegli occhi verdi fissi nei suoi, roba da fargli ribollire il sangue, la sensazione di poterla stringere in un palmo della mano, trattenerla a sé per sempre. E’ tornata con l’ex.
Che emozione ha il fallimento?
Una delle grandi angosce di oggi è indubbiamente quella legata al principio di prestazione. Il nostro Io opera sui paradigmi dell’avere, del possedere, del competere: oggetti, beni, persone, ciò che conta è vincere, qualcun altro deve perdere. Ci si pensa entità separate dagli Altri (e se Tutto fosse Uno?).
La débâcle, lo scacco, la sconfitta sono sempre meno tollerati, come se pressanti aspettative narcisistiche combattessero fino all’ultimo sangue pur di non misurarsi con il limite, rendendo gli obiettivi personali tappe di realizzazione obbligatoria. Tuttavia, se avere nella mente progetti di autorealizzazione è fonte di vitalità, caricarli con l’aspettativa della certezza segna il destino, e quasi mai felicemente.
L’insuccesso sovverte drasticamente l’illusione di onnipotenza personale (è davvero un male assoluto?). Laddove c’è ferita lancinante, ci potrebbe essere un Io mosso da uno sfiancante agonismo perpetuo, ossessionato dall’idolatria dell’Ego, un essere umano in difficoltà. Quando il principio di prestazione guarda al principio di affermazione dell’Io con occhi famelici, un’esigenza superegoica di “vittoria sempre e comunque” si fa largo e l’essere umano finisce per lasciarsi risucchiare dalla pretesa di celare ogni imperfezione, affannandosi a coltivare il proprio essere con medaglie che ne attestino il valore. L’imposizione del successo obbliga a scansare come la peste l’esperienza del fallimento, con la conseguenza che reggere lo scacco si faccia insopportabile. A non rassegnarsi è innanzitutto la parte idealizzata di sé, quella che mal tollera ogni possibile negligenza.
Non si può negare che il fallimento sia un inciampo, una sconfitta, uno slittamento, soprattutto un’esperienza della vita che va diversamente dalle aspettative, mentre considerarlo un “atto mancato” di freudiana memoria, ovvero l’unica versione possibile di un atto ad opera dell’inconscio, è intuizione di pochi.
Lungo il proprio cammino c’è sempre in agguato un possibile scarto del cavallo: cadere è tanto più doloroso se ci si immaginava di cavalcare a pelo un cavallo bianco immacolato. Il muso duro del reale è una possibilità concreta nella vita e spesso, perché vi sia incontro con la verità, è necessario perdersi. Chi non si è mai smarrito non sa cosa sia ritrovarsi.
Non sono affatto convinta che il prestigio a cui l’Io mira sia garanzia di soddisfazione piena; penso, invece, che il fallimento sia occasione di trasformazione. Scardinare l’involucro dell’immagine idealizzata di sé pone l’essere umano di fronte alla necessità di contemplare non solo l’insuccesso, ma di celebrarne, perfino, il beneficio. Non si tratta tanto di amare la sconfitta, quanto di trarne un insegnamento, possibilità dell’Io di “tornare a casa”.
L’esperienza dell’errore prelude la metamorfosi: quando c’è caduta c’è possibilità di cambiamento; non c’è formazione se non attraverso l’allontanamento, l’errare, l’errore. Scegliere di accrescere il proprio potenziale significa domandarsi: “Che cosa posso imparare come essere umano da questo evento della vita?”. La sofferenza è potente maestra, per quanto feroce possa apparire.
Perdonare: il fallimento è opportunità di perdono. Perdonare cosa, chi? Qualcosa, qualcuno, se stessi. Possibilità di dialogo aperto con la passione dell’avere, occasione di confronto con ogni illusione narcisistica, il perdono libera il prigioniero. E quel prigioniero sei tu. Liberarsi dalla colpa dell’imperfezione, liberare l’Altro dalla colpa di averti ferito, liberare l’esistenza dalla colpa del nonsenso che porta con sé. Perdonare è fare un dono a se stessi.
Accogliere le rabbie mute, le lacrime adirate, le parole offese, i bisogni amareggiati: per lasciare andare il corpo ha prima bisogno di sentire. Riconoscere la ferita, tollerarne il dolore sotteso: fuggire da ciò che si prova inchioda le emozioni nel corpo, e questa non è mai buona cosa. Lasciarsi attraversare dalla pena della sconfitta: ciò a cui si resiste persiste. Piangere ciò che si sente di aver perso: la tristezza drena il terreno, riportando a sé quella parte di sé che si ha deposto in altrove.
L’umano che c’è in noi reclama il permesso di essere solo ciò che è. Abitare la compassione per se stessi ha il potere di lenire ciò che si ha fatto o non fatto, detto o non detto, ciò che si è o non si è. Nell’abbracciare le parti misere di sé c’è risurrezione. Riconoscere la propria umana vulnerabilità schiude alla riconnessione con le parti più profonde del Sé. Ed è tregua: la lotta interiore placa la sua ferocia. Finalmente. Forza e vulnerabilità, fermezza e fragilità, possiamo essere una cosa e il suo contrario. I termini di una polarità possono essere in un rapporto complementare invece che antagonistico; lo dicevano gli antichi, i taoisti, C.G.Jung. La coesistenza degli opposti è una delle mete del cammino psicologico e spirituale: l’ipertrofia razionalistica che ci caratterizza è figlia dell’accentuato individualismo che abbiamo dentro, ma senza l’integrazione di luce e tenebra l’essere umano non può conoscere se stesso, l’Altro, né fare esperienza della completezza.
Accettare i propri presunti sbagli apre all’accoglienza della propria imperfezione, ma anche di quella altrui. Certamente, chi non ha fatto esperienza della contraddizione, della colpa, dell’errore, più faticosamente riuscirà nell’impresa di perdonare l’Altro. Abbandonare quel desiderio di giustizia retributiva concede all’anima si lasciare andare, andare oltre. “No, dimenticare è impossibile!”. Il perdono non è l’esito della dimenticanza; è la dimenticanza che è l’esito del perdono. Atto dedicato in primis a se stessi, il perdono si fa strumento contro la rabbia, che tiene vivo il ricordo, contro il rancore, che inchioda al palo, contro la paura, che invita a non rischiare più.
Che emozione ha, dunque, il fallimento? Quella atroce del lavorio lento del perdono – di qualcosa, di qualcuno, di se stessi -, quella sfiancante del lavorio costante dell’armonizzazione degli opposti che albergano in noi. Il fallimento è, allora, occasione di metamorfosi della personalità, mutamento di atteggiamento nei confronti della vita: guarigione dell’anima.