Spesso, troppo spesso, si parla a vanvera. I cosiddetti discorsi da caffè non sono più confinati negli angusti angoli dei bar riservati al gioco delle carte, ma invadono ogni angolo della nostra quotidiana esistenza. Si parla a vanvera in ufficio, sul tram, in portineria, al supermercato mentre si fa la spesa, sui social (che in questa attività hanno sicuramente una posizione preminente), e sempre più spesso anche sui media. Discorsi infarciti di luoghi comuni, pregiudizi, preconcetti, la cui struttura è basata su informazioni di dubbia provenienza e che hanno quale funzione unica e imprescindibile quella di posizionare il proprio io al di sopra dell’io degli altri per affermare una presunta supremazia di pensiero che, in realtà, spesso fa acqua da tutte le parti.
E così, ci ritroviamo tra i piedi esperti ti tutto, tuttologi, che dicono la propria su ogni cosa, lungi dall’idea che se di qualcosa non si ha una specifica competenza forse sarebbe meglio tacere, o magari limitarsi ad ascoltare chi ne sa di più e farsi un’idea propria corroborata da informazioni esatte, o quanto meno attendibili sull’argomento.
E, invece, i signori «Se io sarei il Presidente della Repubblica», che hanno ormai quasi del tutto sostituito i signori «Lei non sa chi sono io», continuano ad emettere sentenze su questo o quell’avvenimento, su questo o quell’atto politico o amministrativo, su questa o quella teoria filosofica, .. o addirittura scientifica.
E’ ovvio che ognuno ha il diritto di manifestare il proprio pensiero, ma sarebbe più opportuno che la formazione di quel pensiero fosse accompagnata da una conoscenza dell’argomento in questione. Se se ne è privi, allora forse sarebbe meglio tacere.
La diffusione dei social, che per caratteristica loro propria consentono di connettersi al mondo in tempo reale e senza limite alcuno, permettono, è vero, l’espressione del libero pensiero, ma hanno ingenerato la convinzione dei più che tale mezzo esista per poter dire quello che si vuole senza osservare alcun criterio di correttezza, di veridicità, di opportunità. Si usa il mezzo internettiano per esprimersi negli stessi termini che si usano in casa, al riparo delle quattro mura che tutto ascoltano ma nulla (si pensa) lasciano trapelare. E invece, il social è come una piazza, dove tutto ciò che si dice può essere ascoltato da tutti i presenti, ma a differenza della piazza dove la presenza fisica può (non sempre purtroppo) inibire comportamenti sconvenienti, in rete spesso si assiste al turpiloquio, all’ingiuria, all’offesa, alla denigrazione, alla mistificazione, alla diffamazione. Certi dell’impunità e del diritto proprio di dire quello che si vuole senza limite alcuno, e nella piena convinzione che tanto non ci si mette la faccia, taluni si lasciano andare a comportamenti che abitualmente non tengono in pubblico ma che spesso rasentano, se non addirittura sconfinano, nel penale.
Ci si accorge di ciò solo in occasione di fatti eclatanti come i suicidi di qualche giovane che incappa nella persecuzione della rete e che non ha gli strumenti per difendersi. Strumenti non solo personali ma anche giuridici. E già, perché quello che più manca sono proprio gli strumenti giuridici a tutela delle persone. La rete è, in effetti, una grande giungla dove ognuno può comportarsi come meglio crede e farla franca.
A fronte di una stampa sottoposta all’obbligo di osservanza dei dettami deontologici, l’uso della rete non è normata.
Il recente dossier «Ossigeno per l’informazione» preparato e presentato alla Camera dei Deputati dalla Fnsi e dall’Ordine dei Giornalisti snocciola dati inquietanti. Da ottobre 2011 a maggio 2015 si sono registrati almeno 30 casi di giornalisti condannati al carcere per un totale complessivo di 17 anni di reclusione. Tra questi i casi eclatanti del direttore del Giornale Alessandro Sallusti condannato nel 2012 a 14 mesi di carcere (poi graziato dal Presidente della Repubblica) e del direttore del mensile Dibattito News arrestato a 79 anni nel 2013 e rimesso in libertà dopo 46 giorni per evidenti ragioni di età oltre che di salute.
Troppo lunga la lista per riportare tutti gli altri casi, così come è altrettanto lunga la lista dei giornalisti costretti ad una vita blindata dalla scorta che l’accompagna. La legge in via di approvazione prevede l’abolizione del carcere per i giornalisti, ma dispone sanzioni pecuniarie che vanno da 5.000 a 50.000 euro. Come dire, basta con le manette ma il bavaglio rimane.
E sulla rete? Niente. Nessuno si preoccupa di regolamentare il sacrosanto diritto di esporre le proprie opinioni, ma senza danneggiare gli altri.
Se è vero che l’argomento è oltremodo delicato e gli eventuali limiti di difficile attuazione, è forse anche vero che l’obiettivo di imbavagliare la stampa è sicuramente più facile da attuare e opportuno per chi ha interesse a che le segrete cose rimangano tali.