II grandi cambiamenti epocali che si prospettano all’orizzonte, e che hanno visto il loro inizio coincidente con quello del nuovo millennio, rischiano di segnare una svolta nella storia non solo del nostro paese, ma in quello dell’umanità intera, tale da potere essere collocata a fianco di quella che, con la fine del medioevo, vide il sorgere della società moderna.
Ci dibattiamo in quella che in molti vogliono far passare come una crisi economica senza precedenti ma che, in realtà, è una crisi di valori che ci porterà ad una rivoluzione del nostro attuale modus vivendi. L’Italia, ma direi anche tutto il mondo occidentale, è pervasa da un sentimento di insicurezza latente che, conseguentemente, genera una chiusura in se stessi dando luogo a numerose forme di esclusione.
L’insicurezza, fisica e sociale, determinata dalle crescenti violenze individuali e collettive, dalle turbolenze e dalle incertezze della politica, dai disordini sociali in atto, portano inevitabilmente, soprattutto le fasce più deboli culturalmente e/o economicamente della popolazione, a trincerarsi dietro slogan vuoti di ogni contenuto che fanno fare non un passo indietro ma un vero e proprio salto all’indietro di qualche secolo alla nostra tanto declamata società civile.
Tutto origina da un crollo di quei valori nei quali l’uomo è al centro della riflessione politica e sociale, causato dal sopravvenire del mito della ricchezza materiale da raggiungere a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Ricchezza materiale che lascia il suo ruolo di mezzo per assurgere a quello di fine. Il successo economico, uno dei tanti strumenti di realizzazione personale e collettivo, diventa unico fine per ogni persona e, con il beneplacito di politici, economisti, giornalisti, intellettuali e specialisti tuttologi, diviene unica strada per la risoluzione di tutti i problemi che affliggono la società. Si guarda alla soluzione economica come unico faro che ci potrebbe portare fuori da ogni crisi.
La produzione dei beni, da sempre uno dei fondamenti e cemento di ogni società, ha lasciato il posto alla speculazione finanziaria. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: mancanza di legami sociali ed estraneamento dei singoli dal contesto in cui si vive. In sintesi, lo sfaldamento della società.
Il posto di lavoro non è più un luogo di aggregazione sociale. La sua precarietà attuale crea una disaffezione e un non riconoscimento del ruolo che non integra il dipendente nell’azienda, rendendolo avulso dal contesto e totalmente privo di qualsiasi senso di appartenenza.
La finanza non intesse rapporti stabili, non costruisce relazioni umane, non esalta gli imprenditori che mirano a edificare imprese da lasciare ai posteri. Gli esempi di imprenditori come Olivetti o Ferrero, e tanti altri illuminati del passato, che vivevano l’azienda come un’appendice della propria famiglia, sono ridotti al lumicino. Quel che conta oggi, per essere un imprenditore di successo, non è riuscire a creare un’azienda che sia anche un organismo vivente, partecipato da chi ci lavora, ma investire in una impresa economica che, indipendentemente da cosa diverrà, sia in grado di realizzare il più alto profitto economico nel più breve tempo possibile, senza tenere in alcun conto chi partecipa all’impresa. Senza la benché minima considerazione per quello che significa, o potrebbe significare, per quegli uomini e quelle donne che costituiscono un vero e proprio organismo vivente e una ricca miniera di conoscenze sapienziali ed esperenziali. Considerando i dipendenti solo come carne da cannone.
La parcellizzazione del lavoro, e ancor peggio la cosiddetta delocalizzazione verso i paesi che consentono un più estremo sfruttamento dell’uomo e che possono quindi garantire costi di manodopera sempre più bassi, diventa normalità, con buona pace di tutti gli studi sulle nefaste conseguenze del taylorismo, incredibilmente ritornato in auge.
I governi ricercano il pareggio di bilancio, anche se gli anziani per vivere devono rovistare nei bidoni della spazzatura e i giovani devono andare all’estero per costruirsi un’esistenza dignitosa.
E così, l’addio al welfare è cosa del tutto naturale.
D’altronde, la stessa unità europea si basa esclusivamente sull’economia, con buona pace di chi aveva concepito una Europa quale punto di convergenza e quindi di arrivo di una millenaria storia di popoli che scoprono una radice comune.
Riportare il dibattito politico e sociale nei binari di un confronto nel quale l’uomo sta al centro di ogni riflessione e ne sia protagonista e non, al pari delle macchine, un mero strumento, è oggi una priorità assoluta, se non vogliamo rimanere imbrigliati in un meccanismo perverso che ci porterà a privare l’uomo della sua stessa anima sociale e la società della sua stessa ragione di esistenza.