In questi giorni di continue migrazioni dal divano del salotto buono alla poltroncina che monta di guardia come sentinella sul mio balcone vista condomini mi occupo di coltivare una sorta di archeologia del vissuto. Accertatomi di non essere visto socchiudo gli occhi e mi lascio andare alla mia occupazione preferita “L’ozio filosofico”. Adagio la testa e come eco mi torna memoria di frasi e mezze parole ascoltate chi sa quando e senza particolare attenzione.
E’ il bisogno di occupare spazi temporali, quale più rassicurante terapia se non il rivivere spezzoni di trascorse stagioni. In tutti questi anni di vita mi ero fatto convinto di essere immortale, ora comincio ad avere qualche dubbio che non ho interesse ad alimentare. Le frasi del tipo “L’avversità restituisce agli uomini tutte le virtù che la prosperità ha tolto loro” mi passano per la mente finendo in quel calderone di parole di cui non ricordo più chi le abbia pronunciate. Penso che non dovrei pensare, ci sono già gli altri che lo fanno per mestiere. Ogni giorno scienziati, analizzatori di fenomenologie collettive e esperti di non so che fanno a gara, in una sorta di staffetta televisiva, a dire tutto ed esattamente il contrario di tutto, confondendo le mie già poco chiare idee e facendo evaporare i sogni di imminente scarcerazione per decorsi termini di auto quarantena.
Allontanare il fastidioso ronzio degli eterni volti dalla presenza militante in televisione diventa per me un imperativo. Tacitare le notizie, preferire la pubblicità alle alchemiche formulazioni dei “So tutto io” che al più ti fanno capire, pronti a smentirlo, che “Se tutto va bene siete rovinati”, noi ovviamente.
In tutto questo c’è una sorta di zona franca dove, come nei forzieri di un caveau svizzero, abbiamo depositato parte della positività che precauzionalmente abbiamo tenuto da parte, forse in previsione dei tempi che stiamo vivendo. Prima che si cominciasse ad eccedere, mio padre mi ripeteva che stavamo esagerando e che un giorno non avremmo avuto la capacità di ridimensionarci convinti come eravamo che tutto ci era dovuto. C’era una Italia che aveva voglia di divertirsi, ero bambino e guardavo i grandi iniziare a vivere il boom economico, mitici anni ’60, feste, locali alla moda come la Lampara sul lungomare tra Colonna e Trani, la Fiat 600 dove si saliva in un numero spropositato di persone e le vacanze in montagna, con tutta la famiglia, che duravano un mese. Li, tra i monti lattari, in alta Irpinia ho trascorso le vacanze più belle degli anni della mia prima giovinezza, la colonna sonora dei pomeriggi e delle serate si diffondeva emanata da quell’ingombrante scatolone con dentro tanti dischi 45 giri. La musica la si ascoltava dentro e fuori i locali, che avessero anche lo spazio per ballare. Il Jukebox, con il suono ad alta fedeltà accompagnato da tante luci colorate riempiva le nostre ore nei luoghi dove la gioventù si ritrovava. Cercavo nelle mie tasche, sempre al verde, una moneta e sceglievo una musica che pensavo potesse invogliare una delle tante ragazze presenti a ballare o ad attaccare discorso.
Altri tempi, certo, con una moneta da 50 lire potevi ascoltare una canzone, ma con 100 lire potevi sceglierne tre e questo ti dava più tempo per il corteggiamento. Il problema era poi se le tue attenzioni venivano corrisposte, dovevi avere sempre un piccolo tesoretto a cui attingere per offrire almeno una bibita, la nonna Maria è stata la mia più grande finanziatrice, la frase di rito era: “Nonna prestami mille lire”, la nonna mi guardava e aprendo il suo forziere che era una porta monete in pelle mi diceva: “Ti devono bastare per tutta la settimana”. Nell’archivio dei suoni, il gettone che scivolando nella fessura cade rumorosamente nella cassetta delle monete, i dischi che scorrono durante la selezione, e i brani che partivano da quella scatola musicale sono una indelebile testimonianza che ho vissuto, anche se a volte la “Congiuntura economica” mi induceva ad ammirare e sperare che le scelte musicali degli altri avventori fossero in linea con i miei gusti. Quella scatola magica, attrattiva come la luce per le falene, ha rappresentato un aggregatore per più generazioni che avevano una gran voglia di allegria e svago.
Oggi i suoni non si sono tacitati, canti, musiche e voci che partono dai balconi delle nostre città sono il segno di chi vuole tornare a vivere rialzandoci dalle macerie di quella che nessuno vuole chiamare guerra.