Storie di vita di persone anziane che seppur in condizione di grave fragilità socio-sanitaria esprimono il desiderio di poter rimanere al proprio domicilio e ne rivendicano con forza il diritto.
Storie che interrogano gli operatori socio sanitari che a diverso titolo si occupano di cura domiciliare e in qualche modo li obbligano a ripensare al proprio ruolo.
Dal semplice esercizio di una prestazione di cura ad un ruolo attivo di costruzione di un progetto di vita a casa, condiviso nel luogo privilegiato rappresentato dalla relazione di fiducia tra persona e operatore, ingrediente fondamentale per una efficace presa in carico del bisogno.
Complesso ma possibile. Un esercizio di ruolo rispettoso della dignità di quella persona che a casa vuole rimanere. Perché la casa cura e rassicura la persona.
Gli operatori socio sanitari impegnati nelle cure domiciliari sono depositari di storie in cui il rientro al domicilio di persone anziane interessate da lunghi periodi di ospedalizzazione ha coinciso con un progressivo recupero di funzionalità andate perse in regime di degenza, ivi comprese quelle cognitive. O ancora di storie in cui la solo azione di progettare il rientro a casa ha spinto la persona fragile a “fare ancora”, a sognare, ad avere la speranza di ritornarvi.
Giorgina, ultraottantenne affetta da obesità grave, ospitata da una parente dopo una lunga ospedalizzazione, così scrive all’operatore sociale che di lei si occupa al domicilio: “Cara (……), mio figlio ti manda questo fax a nome mio; dopo le feste natalizie spero di vederti. Io non vado bene, ma con la forza di volontà tiro avanti; sono ancora da mia cugina ma dopo l’Epifania torno a (……) perché anche se brutta la nostra casa è la nostra casa, tu comprendi il significato morale di queste parole”.
Poche parole che descrivono molte dimensioni: la libertà di scelta di come e dove curarsi, l’accoglienza della malattia, il desiderio di un rientro a casa, il valore di cura che assume il semplice ascolto di un operatore domiciliare, ascolto che rassicura la persona ancor prima delle prestazioni assistenziali.
Esperienze di servizio che hanno avviato riflessioni culturali intorno al valore che assume la casa nei percorsi di sostegno domiciliare di persone fragili.
La casa diviene luogo di cura, perché “fa star bene”, “fa star meglio”, dà sicurezza, abilita e riabilita la persona che la abita.
E luogo della memoria, perché il domicilio rappresenta la storia della persona: racconta affetti, ricordi, esperienze, momenti di gioia e di fatica. Accarezza gli organi di senso della persona con profumi, suoni e luci familiari.
Ma anche luogo del progetto, perché la casa racconta il desiderio di tornarci dopo un allontanamento o la necessità di modificarla per renderla accessibile o il semplice ripensarla in relazione a nuovi bisogni insorti. Così capita agli operatori di osservare come arredi domestici possano diventare per la persona che la abita validi ausili per la deambulazione, un prolungamento della propria fisicità. Addirittura sostituiti ai presidi ortopedici proposti. Domicili che calzano in maniera perfetta a quella persona unica che la abita.
Significati dell’abitare che attraversano le dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro nell’esperienza unica della persona.
Quale progetto di domiciliarità possibile?
Il patrimonio di storie incontrate nel lavoro di cura domiciliare insegna che non esiste la possibilità di standardizzare in uno schema rigido i progetti di domiciliarità, anche a fronte di patologie identiche. La patologia non tiene conto di una variabile unica: il vissuto della persona rispetto all’evento-malattia.
Per tale motivo le progettazioni di HOME CARE richiedono creatività nell’individuazione delle risposte e devono saper tener dentro l’intero della persona e anche il suo intorno.
Intero che si esprime non esclusivamente in una diagnosi di fragilità ma che tiene conto della storia, delle esperienze, dei vissuti e dei desideri.
Intorno che è rappresentato dalla comunità locale di appartenenza, di cui si ha bisogno per non sentirsi soli. Intorno abitato da soggetti privati, di privato sociale e pubblici : la rete familiare laddove presente, il vicinato che in taluni progetti diviene supportivo rispetto ad alcuni bisogni leggeri (spesa, monitoraggio del benessere e del ben-stare della persona), la rete di volontariato organizzato e i soggetti pubblici tenuti per mandato legislativo a garantire l’offerta di servizi di assistenza domiciliare sociale (Enti Locali) e socio- sanitaria (Aziende Ospedaliere e Aziende Sanitarie Locali).
Giorgina è tornata a casa sua e ha “tirato avanti “per molti anni realizzando il progetto di domiciliarità che aveva scelto per se stessa con una tenacia straordinaria che non dimentico. In una casa non brutta, bensì piena di cose: schizzi di fiori con cui sin da piccola si dilettava, poesie brevi scritte su pezzi di carta recuperati dall’attività del figlio e centrini realizzati con pazienza infinita. Ogni oggetto raccontava un pezzo della sua storia e, dentro quella storia, un’altra ancora. Storie dentro le storie. Nonostante la mia ostinazione nel proporgli l’accesso a servizi domiciliari pubblici, Giorgina non ha mai voluto attivare alcunché. Solo una cosa desiderava: che passassi a trovarla a casa sua per ascoltarla… perché sentiva in questo modo sostenuto il suo progetto di stare a casa. Ho appreso da lei il senso profondo della casa che cura.
Rachele Mele
Laureata in Scienze del Servizio Sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è impegnata nel settore socio-sanitario prestando la propria attività nell’ambito del Servizio Sociale Professionale, porta di primo accesso dei cittadini al welfare locale.
Appassionata di cultura e natura, presta attività volontaria presso realtà locali di terzo settore nell’ambito della stesura di progettazioni socio-educative.