Un film intenso e attuale che affronta il tema della gig economy e della precarietà lavorativa attraverso una storia familiare.
Newcastle. Ricky e la sua famiglia combattono contro i debiti dopo il crack finanziario del 2008. Una nuova opportunità appare all’orizzonte grazie a un furgone nuovo che offre a Ricky la possibilità di lavorare come corriere per una ditta in franchise. Si tratta di un lavoro duro, ma quello della moglie come badante non è da meno. L’unita familiare è forte ma quando entrambi prendono strade diverse tutto sembra andare verso un inevitabile punto di rottura.
Dopo aver ricevuto un’ottima accoglienza alla 72 a edizione del Festival di Cannes, Ken Loach (due volte Palma d’oro con Il vento che accarezza l’erba, e Io, Daniel Blake, un Orso d’Oro alla carriera alla Berlinale e un Leone d’Oro alla carriera al Festival di Venezia) torna dal 2 gennaio nei cinema italiani con il suo nuovo film Sorry we missed you, distribuito da Lucky Red.
Il regista, da sempre espressione di un cinema impegnato e attento all’attualità, sceglie di raccontare le problematiche della gig economy, nuova frontiera della precarietà, attraverso la storia di Ricky, di sua moglie Abby e dei loro figli, assumendo toni più intimi e familiari, per denunciare quel sistema che ha portato i lavoratori a perdere ogni diritto e a vivere nell’incertezza economica. Una condizione che ha inevitabili conseguenze sui rapporti umani e sulla vita delle famiglie.
Siamo a Newcastle. Ricky e Abby, come tanti, lavorano tutto il giorno per far fronte ai debiti accumulati dalla crisi del 2008. Ricky decide di cogliere un’opportunità comprando un furgone per le consegne e scopre poi che si tratta di un lavoro privo di qualsiasi diritto e tutela. In una situazione simile è anche sua moglie che lavora l’intera giornata da badante. Pur essendo una famiglia molto legata, le difficoltà sembrano minare in profondità la loro unione.
L’aspetto più sorprendente è il numero di ore che le persone devono lavorare per guadagnarsi decentemente da vivere e anche la precarietà del loro lavoro – ha dichiarato il regista Ken Loach – Il mercato non si interessa della nostra qualità di vita, è preoccupato solo di fare soldi e le due cose non sono compatibili. Ne pagano il prezzo i lavoratori come Ricky e Abby, sulla soglia della povertà. Ma alla fine tutto questo non conta a meno che il pubblico non creda alle persone che vede sullo schermo, non le abbia a cuore, non sorrida con loro, non condivida i loro problemi. Sono le loro esperienze vissute, riconosciute come autentiche, che dovrebbero toccarci”.
Ancora una volta Loach è dalla parte dei più vulnerabili con un film di denuncia ma allo stesso tempo un film ‘umano’. Una storia che suscita indignazione e commozione perché racconta da vicino la vita delle persone, con un linguaggio cinematografico essenziale che vuole arrivare a tutti.
Fonte: Made in Com