Di crisi economica ne sentiamo parlare tutti i giorni. Giornali e televisioni nazionali non ci risparmiano dati e situazioni generali, e le previsioni si sprecano. Ci sono gli ottimisti da una parte e i pessimisti dall’altra, e il dibattito assume la forma dello scontro politico. E come tutti gli scontri politici, sembra non debba interessare i cittadini ormai stanchi di una politica lontana dalla gente e quindi difficile da comprendere, se non fosse per il fatto che la crisi economica li tocca direttamente.
L’argomento non resta quindi lontano dall’attenzione delle persone, che devono fare quotidianamente i conti per far quadrare un sempre più traballante bilancio familiare.
E per farlo quadrare, ovviamente, ci si rivolge sempre più spesso alla grande distribuzione, se non addirittura ai discount, dove i prezzi sono senz’altro più competitivi rispetto al negozio sotto casa. Negozio sotto casa ormai unico, sempre che ce ne sia rimasto ancora uno, visto che tutti gli altri hanno abbassato definitivamente le loro saracinesche.
Non ce l’hanno fatto più a reggere la concorrenza della grande distribuzione.
Se da un lato l’avanzare dei colossi della distribuzione ha prodotto un fattore positivo con l’abbassamento dei prezzi dei prodotti, dall’altro non si può tacere sulla negativa ripercussione che la chiusura dei negozi sotto casa, soprattutto nelle grandi città, ha generato nel tessuto sociale.
Le associazioni di categoria dei commercianti hanno lanciato un inascoltato allarme già da lungo tempo, ma la desertificazione della vita sociale cittadina ha comunque prodotto i suoi effetti: isolamento sociale di larghi strati della popolazione e crollo del senso di sicurezza pubblica.
Il settore del commercio, visto dalle associazioni di categoria, è suddiviso in almeno tre aree, contraddistinte da caratteristiche diverse, ma fondamentalmente legate alla distribuzione: grande distribuzione, medie strutture e commercio di vicinato.
Rientrano nella prima categoria gli ipermercati che tutti ben conosciamo, nella seconda le strutture che occupano una superficie che va dai 250 mq e fino ai 2.500 mq, e la terza si compone del commercio al minuto che occupa una superficie inferiore ai 250 mq.
Mentre per il commercio di vicinato e per le medie strutture le licenze vengono rilasciate direttamente dai Comuni, per la grande distribuzione è necessaria anche un’autorizzazione regionale.
Prezzi concorrenziali ottenuti grazie a politiche di gestione degli acquisti massivi che i piccoli commercianti ovviamente non possono sostenere, e servizi offerti, tra i quali sicuramente la comodità di trovare tutto ciò che serve in un unico punto vendita (centri commerciali), hanno decretato il successo degli ipermercati e segnato la sorte dei negozi di quartiere che ovviamente non potevano reggere una simile concorrenza.
La crisi economica esplosa nel 2008 e ancora in atto ha ampliato il fenomeno causando, secondo la Confesercenti, la chiusura giornaliera tra il 2008 e il 2013 mediamente di 5 negozi di ortofrutta, 4 macellerie, 42 negozi di abbigliamento, 43 ristoranti e 40 pubblici esercizi. Un’ecatombe che ha lasciato senza lavoro 224.000 titolari e una enorme quantità di dipendenti.
La grandissima parte di questi lavoratori non hanno trovato sbocco tra il personale della grande distribuzione, andando ad ingrossare le file dei disoccupati.
Le ripercussioni sociali delle scelte operate dagli amministratori pubblici a favore della grande distribuzione sono sotto gli occhi di tutti. Scelte dettate in gran parte per i succulenti oneri di urbanizzazione che derivano dal posizionamento sul territorio di ipermercati, grossi centri commerciali, outlet, senza pensare alle nefaste conseguenze per il tessuto sociale dei centri cittadini. Poca lungimiranza ed esigenze di cassa hanno determinato la morte della vita sociale nelle città grandi e piccole, le cui vie sono ormai deserte al calare delle tenebre. La paura di uscire di casa nelle strade rese buie dalle insegne dei negozi ormai spente, e l’assenza dei piccoli negozi che assolvevano anche al compito di agenzie sociali dove incontrarsi e costruire relazioni di vicinato e amicali, ha portato all’isolamento delle fasce più anziane della popolazione e dei giovani che non trovano più centri di aggregazione nei quartieri. Per i più giovani il “muretto”, a ridosso del quale si formavano le comitive, è un illustre sconosciuto.
Negli ultimi tempi si assiste ad una evoluzione della distribuzione che prepara alla definitiva scomparsa anche degli ultimi piccoli negozi che fino ad ora hanno eroicamente resistito con l’insegna ancora accesa. La grande distribuzione, infatti, ha deciso di estendere la rete distributiva disseminando sul territorio strutture di ampiezza media che, forti del marchio e della copertura delle grandi potenze commerciali, continueranno a fare strage del piccolo commercio senza offrire, in cambio, spazi di aggregazione che possano in qualche modo consentire la ricostruzione di un tessuto sociale.
Pensare ad un nuovo modello di sviluppo nel quale il cittadino assuma un ruolo centrale quale essere sociale è forse chiedere troppo agli amministratori locali che, per inadeguatezza e disinteresse per il futuro delle nuove generazioni, non sono capaci, o non hanno il coraggio, di porre in essere politiche in grado di ricreare le condizioni affinché i centri delle nostre città possano ritornare ad essere vissuti dai cittadini.