Racconti del passato che, innestati nell’oggi, richiamano vicende di ordinaria quotidianità della seconda metà del secolo scorso a cavallo tra il dopoguerra e il boom economico, tra dignitosa povertà e raggiunto benessere, a sud e a nord dell’Italia.
La trama del romanzo è articolata. Antonio Di Pinto è un agricoltore biscegliese ultrasessantenne che scompare all’improvviso. Mentre partono le indagini ufficiali, asettiche nel loro svolgimento burocratico, si misurano con questa inaspettata vicenda la moglie, le figlie, i nipoti, gli operai con varie congetture sulla motivazione della scomparsa. La narrazione si sposta poi agli anni dell’infanzia del piccolo Antonino (quasi chiave di lettura per interpretare i motivi della scomparsa) prima nella natia Bisceglie e poi a Milano, dove viene mandato a dieci anni – oserei dire “abbandonato” – per iniziare a lavorare presso un negozio di frutta e verdura, insieme con altri ragazzi nelle sue stesse condizioni, gestito da una coppia di coniugi.
Questa è la parte del racconto più avvincente, per certi versi triste, ma è quella che forma il carattere del ragazzino. Storie di povertà, di poca igiene di ambienti e persone, di duro lavoro, di sacrifici, talvolta di soprusi, di pericoli, di promiscuità, di maltrattamenti, ma è anche il periodo degli scherzi, del consolidamento dell’amicizia, della scoperta dell’altro sesso, del divertirsi con poco (un trancio di pizza e un film al cinema per trascorrere il poco tempo libero). In questi anni neppure una comunicazione dalla famiglia (non per cattiveria, ma in tempi in cui il telefono era per pochi e non tutti sapevano scrivere, le distanze geografiche diventavano insormontabili e l’incomunicabilità diventava la norma accettata con rassegnazione). Anche il ritorno a casa dopo tre anni diventa una sorpresa, non potendo materialmente essere comunicato con anticipo. In questo contesto di sacrifici non manca l’allegria e anche la capacità di sognare, nel nostro caso si tratta della passione del protagonista per il ciclismo, del desiderio di emulare le gesta di Fausto Coppi, il campione del momento. Una sana e spicciola filosofia di vita, legata ad alcuni episodi, farà abbandonare questa strada al momento opportuno.
Così, prima di ritornare alla modernità e alla soluzione del mistero della scomparsa dell’uomo, la storia si snoda con racconti anche ironici delle consuetudini di questi ragazzini che sessant’anni fa – a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta – erano inviati a Milano per lavoro. Perdevano i genitori, ma acquistavano nuovi punti di riferimento e soprattutto imparavano a cavarsela da soli, a gestire relazioni e a maturare sentimenti. Il filo rosso del dialetto (biscegliese ma anche milanese) arricchisce la narrazione con un corteggio di soggetti paesani strampalati quanto aderenti alla realtà.
In tanti di quelle generazioni si riconosceranno in queste storie che poi davano l’avvio, dopo congrua esperienza, a una elevazione sociale, diventando questi stessi ragazzi, titolari di avviati negozi, anche se nel nostro caso il protagonista del romanzo, al termine della sua gavetta, ritorna a Bisceglie per continuare e implementare l’attività agricola del padre, aiutato anche dalla fortuna, sposerà infatti la figlia di un ricco possidente del luogo.
Una storia di radici ma vissuta nell’oggi e proiettata nel futuro, arricchita da argute riflessioni. Un finale a sorpresa, anticipato e ben costruito con le varie vicende descritte, ma non definito, che lascia spazio a varie ipotesi anche in relazione all’evoluzione dei rapporti personali tra i vari personaggi che prendono corpo nel romanzo.
Una lettura avvincente non solo per la custodia della memoria del passato che si va perdendo ma anche perché in filigrana offre spunti di riflessione sul senso dell’esistenza che è anche la tensione verso la felicità che tutti ci portiamo dentro.